Ma il turpiloquio paga?

Salvini ha recentemente invitato i parlamentari “ad alzare il culo”. Boris Johnson in Inghilterra non è da meno. E l’elenco potrebbe essere molto lungo.

Ebbene sì: il turpiloquio avanza e si diffonde. Perché – si sostiene – il linguaggio «colorito» è sempre più spesso considerato sinonimo di schiettezza e quindi particolarmente apprezzato per raggiungere e convincere. In ogni ambito.

E pensare che Clark Gable nel 1939 alla fine di «Via col Vento» usò un’espressione bandita che diventò una delle battute più famose della storia del cinema: «Francamente me ne infischio» («Frankly, my dear, I don’t give a damn»). E per quel «damn» (non me ne frega un accidenti) la produzione pagò una multa di 85 mila dollari. Cosa sarebbe accaduto se a pronunciarla fosse stata Vivien Leigh, si chiedeva ieri il Corriere della Sera?

Molta acqua è passata da allora. E il turpiloquio di strada ne ha fatta, allagando anche le stanze del potere e le istituzioni. Fiorenza Sarzanini (sempre sulle pagine del Corriere della Sera) osservava giustamente che “è un problema di linguaggio, ma non solo. Perché si tratta di ministri e dunque in discussione c’è il ruolo che hanno, l’istituzione che rappresentano. Quando oltrepassano il confine e scadono nell’insulto, ad essere sviliti non sono i bersagli dell’epiteto, ma le funzioni che loro stessi ricoprono”.

Eppure, il “neo-volgare” dei politici (per non parlare di altri contesti) sembra piacere e fare breccia. Li avvicina alle masse (evidentemente, dopo anni di distanza percepita e mai gradita). E viene perciò usato con sempre maggiore frequenza.

Il problema è che si utilizza il turpiloquio piuttosto che concentrarsi sulla semplificazione del linguaggio e sulla sua comprensibilità. È più facile, ma talvolta anche pericolosamente svilente. 

Eppure, se ne infischiano. Ma non siamo in “Via col vento”, e domani potrebbe non essere un altro giorno.

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