In queste ore drammatiche per il grande Andrea Camilleri e per tutti gli italiani (e non solo) che amano le sue storie ed il suo linguaggio, ci è scivolato tra le mani un libro dialogico che si legge d’un fiato (126 pagine), “La lingua batte dove il dente duole” (Laterza, 2013).
A confrontarsi, sulle questioni del dialetto principalmente e del suo rapporto con la lingua d’uso, da un lato l’inimitabile e pur imitatissimo Andrea Camilleri, che coi suoi romanzi è riuscito a sdoganare l’ universo vernacolare e a internazionalizzare (ancora di più) il siciliano; dall’altro, sua maestà Tullio De Mauro, docente emerito di Filosofia del linguaggio e di Linguistica generale, autore di un’opera monumentale come la “Storia linguistica dell’Italia unita”.
Quindi, da una parte lo scrittore che continua a dichiararsi un romanziere italiano nato in Sicilia, perché perfettamente consapevole del fatto che il dialetto arricchisce la lingua della nazione; dall’altra, l’accademico illuminato che ha radiografato l’uso dell’italiano, censendone storture e paradossi.
Ne viene fuori una conversazione molto brillante, animata al fine di difendere un imputato d’eccezione: il dialetto. Condannato nell’Italia ottocentesca da poco unita, e invece poi riabilitato in anni più recenti.
Riabilitato quale «lingua degli affetti», «fatto confidenziale, intimo, familiare», come afferma il padre del commissario Montalbano nella sua appassionante perorazione: una lingua che offre le parole giuste al momento giusto, in grado di «esprimere compiutamente, rotondamente, come un sasso» quello che si vuol dire; laddove l’italiano, spesso, non riesce a tirar fuori l’equivalente.
Salvatore Ferlita, Camilleri e De Mauro dialogo sul dialetto, Repubblica.it, 21 novembre 2013