Titoli nobiliari e linguaggio democratico

A parte i principi del foro, “er principe” allo stadio della Roma, e qualche omonimo personaggio da Gomorra, i titoli nobiliari hanno ancora rilevanza? Cioè, se incontriamo (in ordine di importanza) un principe, un duca, un marchese, un conte, un visconte, o un barone, siamo tenuti a chiamarli così?

La gerarchia nobiliare, sorta in epoca feudale, inizialmente ebbe specifiche funzioni politico-giurdiche. Infatti, rappresentò il modo attraverso il quale il sovrano riusciva a controllare le diverse forze che avevano un qualche potere sul territorio. I titoli nobiliari, tramandati per diritto ereditario, furono riconosciuti a tutti gli effetti dallo Stato italiano fino all’entrata in vigore della Costituzione, quando persero ogni valore giuridico. Quindi, oggi, non sono più riconosciuti dall’ordinamento giuridico italiano e il loro uso è indifferente di fronte al nostro Stato il quale non accorda ad essi alcuna protezione.

Ciò significa da un lato che ne è consentito l’uso pubblico o privato da parte di chi ne è investito, dall’altro che i pubblici ufficiali hanno il dovere di omettere ogni indicazione del titolo nobiliare negli atti da essi formati (pensiamo al notaio: non scriverà mai nell’atto che la casa viene acquista dal ‘principe’ Tizio). 

Insomma, oggi, il ‘principe’ può anche presentarsi come tale, ma il comune cittadino può infischiarsene e il pubblico ufficiale deve infischiarsene. Nel rispetto di un linguaggio democratico e costituzionalmente orientato.

Ah, dimenticavamo: l’uso di un titolo nobiliare di pura fantasia, cioè che non è stato mai concesso all’utilizzatore da alcuna ’fonte’ adeguata, non costituisce un illecito di alcun tipo. Così, alle volte voleste prevedere qualcosa di nuovo sul biglietto da visita o in società.

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