Chi perde un genitore è «orfana/o». Chi perde il coniuge, «vedova/o». Ma per chi perde un figlio la lingua italiana non ha un termine da offrire… Forse perché è un dolore talmente indicibile che anche la lingua si rifiuta di cristallizzare; e si ricorre, tutt’al più, ad una figura retorica, un eufemismo: ‘perdita’.
‘Perdita’ che “Il colibrì” cerca di mettere a fuoco, prima nel libro vincitore del Premio Strega 2020 e ora nel film con Pierfrancesco Favino come protagonista (bravissimi tutti gli interpreti).
La parola non esiste in italiano, ma nemmeno in inglese, in francese, in spagnolo, in tedesco, in russo. Nel film (e nel libro) si ricorda che in ebraico esiste invece la parola ‘shakul’.
Nella Bibbia la parola effettivamente c’è. Più precisamente, si ritrova in più di un’occasione (Genesi 27,45. Isaia 49,21. Geremia 18,21): è ‘av shakul’ (al maschile) ‘em shakula’ (al femminile), entrambi derivano dal verbo ‘shakul’ che significa appunto “perdere un figlio”. Concetto antico che appunto risale al Vecchio Testamento, ma nel tempo è rimasto anche nell’ebraico moderno. Poi si scopre che anche in arabo il termine c’è: ‘thaakil’ e ‘thakla’. Stessa radice etimologica di ‘shakul’.
Pure nell’antica Grecia con ‘orphanòs’ si indicava sia la condizione di figlio che perde i genitori sia genitori che perdono i figli. Quasi a dire che la perdita è di egual peso e misura, anche se non è quasi mai così.
Infine, in sanscrito, si dice: ‘vilomah’ che significa “contro l’ordine naturale” senza specificare che cosa è contro l’ordine naturale, ma è utilizzato per specificare la perdita di un figlio.
Tutto questo non lo trovate nel film di Francesca Archibugi e nel libro di Sandro Veronesi (2019), ma molto prima. Guardando ad anni recenti, ad esempio è in un libro di Concita De Gregorio (“Mi sa che fuori è primavera”, 2015); e, soprattutto, nel blog e nel libro di un padre che quella ‘perdita’ l’ha provata (“La versione di Misha”).
Un dolore per il quale, purtroppo, le parole purtroppo non basteranno mai.