La retorica del linguaggio bellico, anche per il cancro. Ma non sempre funziona, anzi

Anche Sinisa Mihajlovic ha cominciato la sua ‘battaglia’. Come tanti pazienti ‘bombardati’ con i raggi per contrastare l’invasione tumorale: quelle cellule che ‘invadono’, ‘colonizzano’, e costringono tutti a rafforzare le ‘difese’.

Oggi, in uno splendido articolo sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista affronta il problema del linguaggio di fronte al male e al dolore. In particolare, di fronte al tumore. Il suo ragionamento è ben sintetizzato in una domanda fondamentale che viene posta: chi non guarisce è un perdente?

L’editorialista pone l’attenzione – giusta, giustissima – sul peso (negativo) che talvolta anche parole di solidarietà e, dunque, spinte da una assoluta buona fede possono avere. E su come, oggi giorno, sia assolutamente sbagliato (non c’è correlazione scientificamente provata tra l’atteggiamento del malato e il decorso della malattia) esaltare come una ‘battaglia’ il confronto che un paziente comincia con la cura della malattia: dolorosa, lunga e dall’esito indipendente dalla sua tempra e dal suo atteggiamento.

Occorre dunque riportare il cancro al suo grado zero, non sovraccaricandolo di metafore militari che – è paradossale, ma è così – possono umiliare i pazienti, trasferendo loro una responsabilità che non hanno.

Come ha scritto Maurizio Crosetti, la retorica del cancro e lo sfoggio di ‘forzutismo’ (definizione di Elena Lowenthal) sono offensivi per chi soccombe e muore. Non si arrende: muore. E chi vive non vince: guarisce. Non è che chi muore è stato meno eroico di chi guarisce.

Le parole aiutano, ma quelle giuste (di solidarietà, di cura, di affetto, di vicinanza, di amore). Altrimenti sono lame, e talvolta boomerang.

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