“L’Americani so’ forti”. E allora diciamolo in inglese

La notizia è di pochi giorni fa: il neoministro del MIUR Marco Bussetti ha promesso un luminoso e tecnologico futuro per gli studenti italiani, prospettando loro la liberazione dalla schiavitù dei quaderni (evidente retaggio di un passato giurassico) grazie ai tablet. «Dobbiamo cambiare impostazione della didattica», dichiara il Ministro, «usare le nuove tecnologie, insegnare a relazionarsi con i social media, valorizzare il public speaking e il debate, puntare sulle materie STEM» (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica – Science, Technology, Engineering and Mathematics, nuovo quadrivium della Scolastica del terzo millennio).

Quanto agli investimenti necessari per questo grandioso ed ambizioso programma, Bussetti risponde «Non credo che ne servano molti, il tablet», per l’appunto, «sarà il nuovo quaderno tra pochi anni, possiamo usare meglio investimenti fatti».

Ecco, finalmente le novità, il cambiamento. In inglese? Ma sì, lo si sa: le parole in Inglesorum rendono più credibile qualsiasi concetto. Anche perché, per comprenderne a fondo la reale sostanza, chi le ascolta dovrebbe fermarsi un attimo e pensare. Cosa non facile, nella società dell’immagine, delle fake news e delle sparate easy listening. Solo allora ci si accorgerebbe (con un brivido alla schiena) che, in fondo, la sostanza delle suddette suadenti parole in Inglesorum è molto più banale di quanto non appaia. Certo, dire public speaking suona più elegante del nostro più eufonico (ma plebeo) “arte di saper parlare in pubblico”. Chiamare debate il nostro normalissimo dibattito fa sembrare quest’ultimo qualcosa di nuovo, moderno, efficiente come i WASP che dominano il nostro surriscaldato pianeta (e tutti sanno che «l’Americani so’ forti», diceva Alberto Sordi in un celeberrimo film).

Un interessante articolo analizza differenze (?) tra il ministero precedente e quello attuale in termini di programmazione e scelte, ma enuclea soprattutto il problema della deriva linguistica, in particolare causata dagli anglicismi, e in particolare di quelli introdotti dalla politica.

Noi ci siamo ridotti a dire e a scrivere “Jobs Act”, “spending review”, “Authority”, “bipartisan”, “convention”, “austerity” , “newco” e via di questo passo. La cosa è assolutamente allarmante perché la politica e le leggi sono l’ambito della sovranità di un popolo e di un paese. Che l’inglese o un’altra lingua dominino il mondo della finanza, degli enti internazionali, dell’organizzazione delle imprese, dell’innovazione tecnologica, riusciamo a capirlo e ad accettarlo. Ci sono ragioni obiettive, fattuali, che spingono nella direzione dell’egemonia dell’inglese. Anche se qualcuno dovrebbe comunque spiegare perché noi siamo gli unici latini che scrivono e dicono “computer”, mentre i francesi scrivono “ordinateur”, gli spagnoli “ordenadora” o “computador”, i portoghesi “computadora”. Troppo difficile scrivere e dire “elaboratore” o “elaboratore dati”?

Adesso però, da qualche anno, si è passati alla politica, e questo è un salto di qualità (in negativo). La politica è l’ambito della sovranità, dei dibattiti e delle decisioni intorno al bene comune, perciò dovrebbe svolgersi nella lingua madre della maggioranza della popolazione, fatte salve le salvaguardie per le minoranze linguistiche. L’introduzione e la pervasività crescente di una lingua straniera fanno pensare a una serie di riflessioni. La prima è che si vuole escludere una parte dei cittadini – la parte più debole – dalla discussione politica: si usa una lingua che molti non capiscono per tagliarli fuori dalla discussione, per alimentare in loro un sentimento di estraneità dalla politica, un complesso di inferiorità. La seconda riflessione è che l’uso di una terminologia alloglotta (cioè appartenente a lingua diversa da quella maggioritaria) finisce per generalizzare e banalizzare l’idea che la sovranità sull’Italia non appartiene più al popolo italiano, ma a soggetti, non si sa se personali o impersonali, se fisici o giuridici, che stanno fuori e lontano dall’Italia. Si finisce per convincere gli italiani a sentirsi cittadini del mondo, sì, ma di un mondo dove comanda qualcun altro. D’accordo, gli Stati Uniti e la finanza anglosassone detengono ancora l’egemonia politico-economica planetaria, ma in Francia o in Germania non si sognerebbero mai di usare l’inglese per parlare di cose dello Stato o per battezzare riforme legislative o altri atti di governo.

Ma torniamo al MIUR (Ministero dell’Istruzione). Anche l’Accademia della Crusca non ci sta, e così rimprovera il Ministero per “abbandonare l’italiano” per favorire “un sovrabbondante non di rado inutile” uso della lingua inglese (si veda un interessante articolo in proposito).
L’accusa di anglicismo da parte della Crusca si riferisce all’ultimo dei documenti del Ministero diffuso nelle scuole superiori di secondo grado nel marzo 2018: il Sillabo programmatico “Educazioni all’imprenditorialità”. I professori del gruppo Forestierismi Incipit, dell’Accademia della Crusca, specializzati nel contrastare il dilagare dell’anglicismo, dopo aver analizzato il Sillabo non usano mezzi termini nel condannarlo, per la sua “meccanica applicazione di un insieme concettuale anglicizzante, a fronte di un italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari di lingua, intesa quale strumento di comunicazione e di conoscenza”. Gli esempi per Incipit sono lampanti: il chiaro ed esaustivo italiano “saper lavorare in gruppo” nel Sillabo diventa “conoscere le leggi del team building”; saper progettare viene sostituito con conoscere il design thinking”. Il risultato complessivo del testo è farraginoso: si rischia una comprensione approssimativa dei concetti; si reca danno all’uso della lingua italiana ma anche dell’inglese, che si va perdendo sempre di più in quella che ormai viene definita, più che la lingua britannica, la lingua globale, dal risultato alquanto confuso: probabilmente la pratica del doppio idioma pretende una robusta conoscenza sia della lingua madre sia della lingua internazionale che, nella maggior parte dei casi, è carente.

Per i professori della Crusca, la condanna è senza appello: nel Sillabo l’inglese si configura in una “sorta di contraffazione paradigmatica della cultura e del patrimonio italiano” e non risparmiano una ironica domanda retorica: “È così che si vogliono promuovere e valorizzare le eccellenze italiane, il Made in Italy?”. Cedendo, loro stessi, involontariamente, all’anglicismo…

Forse la spiegazione di tutto era già nota a Leopardi, che così scriveva nello Zibaldone: “Nel pronunziare o nel sentir pronunziare una lingua straniera, ci piacciono più di tutti quei suoni che non sono propri della nostra”. Lo Zibaldone, un “must have” dell’autunno 2018-2019…

 

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